Bisogna insegnarlo fin da piccoli. La nonviolenza è un valore cruciale per il nostro futuro. Fin da piccoli i ragazzi a scuola sentono la parola patria, imparano a memoria le litanie delle guerre, sono abituati a pensare che le guerre sono inevitabili nel gioco dell'egemonia tra Stati. Certo, si dice che le guerre sono brutte, che muoiono persone, ma nonostante questo ci son sempre state, e qualcuno le deve pur fare. E allora ci sono ancora ragazzi e ragazze che si arruolano. Che decidono di imbracciare un fucile. E ancora ci sono quelli che i fucili li fabbricano. Non solo i fucili. Le mine antiuomo, i razzi, ogni sorta di strumento per uccidere in grande stile. Come se fosse normale. Come se non ci potesse essere un'alternativa. Le guerre scoppiano perché qualcuno vuole che così sia. Perché qualcuno ha a disposizione un esercito obbediente e tutto un apparato di patria, suolo, confine, storia, religione, cultura... Diverso sarebbe se non ci fosse proprio nessuno disposto a combattere. Ma la nonviolenza, invece di essere considerato il presupposto essenziale per l'esistenza, ancora viene considerato un sogno da bambini. E anzi, la festa della Repubblica, è una parata militare.
Questo scrisse Don Lorenzo Milani ai giudici che lo condannarono per la famosa Lettera ai Cappellani Militari:
"[...] Condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà comandati. E invece bisogna dir loro che Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima, che vede ogni notte donne e bambini che bruciano e si fondono come candele, rifiuta di prender tranquillanti, non vuol dormire, non vuol dimenticare quello che ha fatto quand'era «un bravo ragazzo, un soldato disciplinato» (secondo la definizione dei suoi superiori) «un povero imbecille irresponsabile» (secondo la definizione che dà lui di sé ora). (carteggio di Claude Eatherly e Günter Anders - Einaudi 1962).
Ho poi studiato a teologia morale un vecchio principio di diritto romano che anche voi accettate. Il principio della responsabilità in solido. Il popolo lo conosce sotto forma di proverbio: «Tant'è ladro chi ruba che chi para il sacco». Quando si tratta di due persone che compiono un delitto insieme, per esempio il mandante e il sicario, voi gli date un ergastolo per uno e tutti capiscono che la responsabilità non si divide per due. Un delitto come quello di Hiroshima ha richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici, scienziati, tecnici, operai, aviatori. Ognuno di essi ha tacitato la propria coscienza fingendo a sé stesso che quella cifra andasse a denominatore. Un rimorso ridotto a millesimi non toglie il sonno all'uomo d'oggi. E cosi siamo giunti a quest'assurdo che l'uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva. L'aviere dell'era atomica riempie il serbatoio dell'apparecchio che poco dopo disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente. A dar retta ai teorici dell'obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C'è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto. A questo patto l'umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico."
grande