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  • Immagine del redattorebeppecasales

Dignità

In questi giorni in cui molte persone in piazza gridano “Libertà!” e in questo giorno che ricorda che la violenza sulle donne deve finire, penso che forse mi dovrei chiedere cosa vuol dire per me “libertà”. Nel Preambolo, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dice che “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. E quindi si riparte dall’inizio. Dalla dignità.


A me, quando penso alla parola dignità vengono in mente cose così: un cappotto caldo quando fuori c’è freddo, un minestrone fumante quando fuori piove, l’acqua quando hai sete, quel senso di soddisfazione quando ho finito un lavoro fatto bene, quando mi trattano con rispetto, magari in quel modo fuori moda. E, sopra tutto, l’assenza di paura. Paura che qualcuno mi possa fare del male, che voglia qualcosa da me con la violenza, la paura di essere giudicato, umiliato, oppure la paura di stare male e di non essere accudito. Bartolomeo Vanzetti lo diceva meglio di me: “io voglio un tetto per ogni famiglia, del pane per ogni bocca, educazione per ogni cuore, luce per ogni intelligenza.”


La dignità parte dalle cose fondamentali della persona: cibo, acqua, casa, protezione dalla violenza, protezione della salute, istruzione. Il primo gennaio del 1948 è entrata in vigore la Costituzione della Repubblica italiana. Non so se gli italiani del tempo pensavano che dopo il fascismo e la seconda guerra mondiale sarebbe cambiato qualcosa. Che lo Stato si sarebbe sovrapposto alle piccole comunità di prossimità come una comunità più grande, più progressista, più giusta. Che lo Stato avrebbe finalmente garantito per tutti cibo, acqua, protezione della violenza, protezione della salute, istruzione (dove peraltro l’istruzione ha un ruolo fondamentale per garantire tutto il resto). Io non credo. In ogni caso non è stato così.

Il patriarcato e il capitalismo insieme hanno vinto. Non è stato sconfitto lo sfruttamento nel lavoro a favore del profitto. Non se n’è andata l’idea che una donna sia in qualche modo inferiore all’uomo. Paghe diverse, diverso accesso alle professioni, mancanza di indipendenza economica. E la paura. La paura di non farcela, la paura di subire una violenza, la paura di non poter trovare aiuto. La comunità di prossimità si è sciolta al sole delle frustrazioni e della paura. La comunità dello Stato non esiste. La famiglia, che spesso è una difesa, è anche il luogo dove si consumano le violenze più infami. Perché ancora c’è quell’idea lì, tipicamente maschile, che le fragilità e gli errori devono rimanere nascosti. La vergogna dell’inadeguatezza rispetto a un modello che nessuno ha scelto con consapevolezza. L’altro modello, quello di Bartolomeo Vanzetti, ora suona come vecchio e ingenuo. Ma come? In Italia, nel 2021, non c’è un tetto per ogni famiglia, pane per ogni bocca, educazione per ogni cuore e luce per ogni intelligenza? Il fallimento del nostro modo di vivere esplode continuamente. Forse non davanti ai nostri occhi, ma continuamente. Per ogni donna che ha paura. Per ogni uomo che non lavora su di sé, sul marcio che gli ha lasciato la cultura patriarcale e il santo e indiscutibile capitalismo. Per ogni persona che si alza al mattina e sente che manca qualcosa. La dignità.

immagine tratta da Pather Panchali, film indiano del 1955 (https://it.wikipedia.org/wiki/Il_lamento_sul_sentiero)

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